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BIANCONI – IL RECUPERO DI UN ABBANDONO – INTERVISTA A CURA DI GIUSEPPE FRANGI

Bianconi.
Il recupero di un abbandono
Intervista a cura di Giuseppe Frangi

Andrea, nelle tue performance quanto conta l’altro?
L’altro è quasi più importante di me: non solo è necessario ma è anche vitale perché la performance funzioni. L’altro può essere anche l’altro che abita dentro di me, quindi un’interazione tra “me” e l’”altro me”, l’altro io. In genere l’altro è però persona che partecipa in qualche forma alla performance. Ho bisogno sempre di una relazione, addirittura arrivando a sfiorare la teatralità, il cinema, tutte quelle forme che sembrano non c’entrare con una performance. Faccio un esempio: nel caso della performance con i cinesi (The Chinese Umbrella Hat Project, 2011, Venezia) i partecipanti giravano per il centro di Venezia con gli ombrellini in testa. Loro dicevano di voler essere occidentali ma durante la preparazione io li incalzavo chiedendo a ciascuno: «Ditemi, perché in fondo non siete occidentali?». Hanno ammesso che la loro tradizione era troppo forte e sentivano di portarsela addosso. Così ho voluto che si portassero addosso davvero elementi della tradizione cinese e vestiti in quel modo cercassero l’interazione con le persone. La performance scatta nel momento in cui si completa il processo tra loro e gli altri e tra me e loro.

Un altro esempio. Quando ho fatto la performance con le maschere (Trap for the Minds, 2011, Union Square Park, New York) mi sono messo davanti allo specchio indossandole tutte, ad una ad una. Quindi da una parte c’ero io come mi vedevo, ma grazie alle maschere c’erano tanti “io” davanti allo specchio. Dall’altra parte c’erano poi le persone che guardando si chiedevano: «E adesso cosa sarà? Quanti “altri” è?». Quindi l’altro diventa sempre una parte fondamentale della performance. Perché senza dell’altro non fai niente.

Raccontami la prima performance.
È stata una genesi interessante, tutta centrata sull’idea di messaggio. Non tanto del contenuto ma proprio di come viaggiasse il messaggio. In sostanza mi chiedevo chi sono i portatori del mio messaggio? È ho immaginato questi pony express a cavallo, stile John Wayne. Avevo arruolato tutti questi messaggeri in forma di statue. Loro erano i portatori del messaggio che dovevo dare. In quel momento stavo leggendo anche la vita di San Francesco. E mi è venuta questa idea: uso San Francesco per trasmettere un messaggio e ne faccio uno spot pubblicitario. Del resto se San Francesco tornasse sulla terra come si presenterebbe? Secondo me attraverso uno spot pubblicitario. E che spot farebbe? Mi sono immaginato di vederlo atterrare con questa astronave nel centro commerciale e consegnare un messaggio di pace seguito da cuori e da uccelli. Il fatto che lui parlasse con gli uccelli è un fatto di comunicazione, così ho pensato che funzionasse l’idea di trasferire questo fatto in uno spot pubblicitario, che è la forma di comunicazione del nostro tempo.

Quella quindi è stata la prima intuizione?
Sì. Mi son vestito da San Francesco, sono andato in un convento per farmi dare un saio, ho costruito l’astronave e ho fatto questo spot. L’ho realizzato ad Arezzo, nel parcheggio di un centro commerciale. Era il 2006.
In quel caso la relazione è stata con chi? Il “tu” chi era?
C’ero io con San Francesco. Poi San Francesco e le altre persone. San Francesco era quindi di nuovo il tramite per poter comunicare. L’ho usato come figura fondamentale per trasmettere un messaggio.
Quindi è il tuo patrono?
Sì, è il mio patrono.

Il patrono dei performer?
Sì, perché è talmente lirico e talmente se stesso da essere unico.

La performance è un mettersi a nudo?
È un mettersi a nudo. È trovare il momento a cui tu non stai più pensando a quel che stai facendo. La performance è sempre la rincorsa verso quel momento lì. È un distaccarsi da se stessi, per poi rientrare in noi una volta finita. La performance, secondo me, più che un’opera è un processo. Alcune sono molto lunghe anche perché c’è il momento d’attesa per uscire da te stesso. Questo momento lo puoi intercettare solo grazie alla ripetizione ossessiva. È un po’ come essere uno sciamano.

Quanto conta la progettualità nelle tue performance?
In un primo momento conta moltissimo. Faccio disegni e schizzi, penso e ripenso. Perché l’idea arriva in un attimo, ma solo la progettualità le dà consistenza. Poi andando avanti, il più delle volte mi dimentico di questa progettualità e la performance si sviluppa diversamente rispetto al progetto iniziale. La progettualità è importante perché ti aiuta a capire come vuoi fare la performance. Ma poi devi mettere nel conto che non la farai sicuramente come l’avevi pensata. Perché nel momento in cui la progetti non c’è l’altro. Quindi devi abbandonare il progetto, perché il rischio è che diventi una gabbia. Così succede che nei primi momenti della performance io entri in conflitto con me stesso e mi chieda che cosa sto facendo. La performance, secondo me, deve essere legata al momento, può vivere solo nel momento e poi sparisce.

Le performance si generano da te o magari anche nel dialogo, nell’incontro? L’altro entra in gioco nel momento della progettualità? A volte succede che sto seduto in un bar e dal dialogo di due persone mi arriva un’idea che poi porto avanti e realizzo. La progettualità quindi è tutta mia. L’altro subentra solo ad un certo punto. Del resto la progettualità regge i primi 30 secondi, a volte il primo minuto. Poi subentra l’altro, anche se l’altro sono “io”. Io mi vedo l’altro.

La performance può essere ripetuta?
Se è ripetuta diventa un’altra performance, che non sarà la stessa. C’è n’è una che ho fatto tre volte, prima a Praga, poi a New York e infine a Houston (A Charmed Life, 2009, Stone Bell House, Praga; 2011, Volta NY, New York, 2011, Barbara Davis Gallery, Houston TX) . Era quella in cui io suonavo una cascata di corde e oggetti. Ogni volta che la ripetevo ero diverso io. Per tanti motivi, perché avevo persone diverse attorno a me, perché già conoscevo i meccanismi della performance. La prima volta ho sperimentato la novità, la seconda era già un po’ meno libera, la terza è stata più controllata di tutte le altre.

Quindi la ripetizione è un po’ un declino della performance?
La ripetizione sì. Secondo me deve essere quel momento, quella volta, e poi non deve esserci più. Se dovessi rifare la performance di Shanghai (The Chinese Umbrella Hat Project, 2010, Shanghai) non sarebbe più la stessa. Perché i partecipanti perderebbero l’effetto sorpresa e verrebbe meno il loro entusiasmo

È come se potessi prevedere tutto quello che succede?
Sì, e così inizi controllare ogni passaggio. Una delle caratteristiche che deve avere la performance è la non perfezione. Deve davvero accadere ed è per questo che esco sempre dal progetto che ho fatto. Deve accadere qualcosa di inaspettato che ti sbalordisca, che ti stupisca che ti porti da un’altra parte. Non deve essere perfetta.

Nella performance in cui balli con tua moglie (Forever and Ever, 2009, la soffitta di casa, Arzignano, Italia) qual è stato il fatto inaspettato che è accaduto?
Volevamo darci un bacio, ma non è stato possibile perché c’erano le gabbie. Volevamo ballare in un certo modo e non era possibile perché c’erano le corde che pendevano dalle gabbie che si impigliavano e questo non lo avevamo messo in preventivo. Poi c’era ovviamente l’imbarazzo di ballare con mia moglie con una gabbia in testa. E quindi vorresti accarezzarle la testa, e invece stai accarezzando la gabbia. Non l’avevamo provata prima. Abbiamo detto: la facciamo una volta e quella è.

Dalla performance si esce diversi?
In genere sì. Ma non da tutte. In alcuni casi rifletti su cose su cui prima non ti eri mai soffermato; o ti arrivano pensieri che prima non avevi pensato. Non esci sconvolto; non è così. Per esempio, quando ho fatto la performance delle maschere, mi mettevo una maschera sopra l’altra di fronte allo specchio. Ad un certo punto sono diventato cieco perché dopo 20 maschere tu non vedi più, ma devi continuare la performance e non avevo messo in preventivo di diventare “cieco”.

E cosa è successo?
Che tutti i tuoi movimenti rallentano e quindi subentrano nuovi sensi. Che tu stai più attento a quello che stai facendo ed è in quell’istante che nasce la performance. Poi, quando la performance finisce, quell’istante ti resta dentro. Ciò che mi arricchisce è questo far entrare altro nella mia vita: un assimilare elementi dell’esperienza e della realtà che prima non conoscevi. È un uscire da me stesso per poi ritornare in me stesso; uno scappare dalla realtà per poi tornarci. Solo con la performance posso fare un’esperienza simile. Non è questione di concentrazione o di dedizione nel prepararla. Non è neanche un tuo desiderio di voler dire qualcosa a qualcuno. È proprio un cercare di crearsi una situazione che azzeri il momento, che annulli il momento che stai vivendo. Perché quel momento è talmente pieno ma poi diventa talmente nullo, come quando ti guardi allo specchio e non ti vedi più per via delle maschere.

La performance è una caduta libera? Può fallire, cadere, non riuscire, non finire?
Una performance può fallire e il fallimento può far parte della performance stessa. Perché è il non controllo che fa la performance. Ad Arezzo (Babele, 2015, Piazza San Francesco e centro città, Arezzo, Italia), la performance che aveva a che fare con i profughi, ma naturalmente loro di performance non sapevano niente. Ho dato a ciascuno uno stereo e hanno iniziato a ballare; alla fine sono andati fuori dal mio controllo. Ci sono stati momenti in cui non sapevo neanche io cosa dire o come intervenire per cambiare qualcosa. Ad un certo punto però ho deciso di lasciarli liberi. Perché mi hanno sorpreso sia positivamente che negativamente. Perché è stato un momento inaspettato. Così li ho lasciati continuare a sorprendermi. Magari poteva andare in modo diverso. Si può parlare di fallimento perché l’esecuzione non è stata perfetta, perché loro non erano dei performer; però alla fine quello che ne è uscito è stato perfetto. Perfetto nella sua incompletezza. Loro si sono comportati come dei veri performer nel senso che sono stati veri e leali verso se stessi e non hanno esagerato. Non si sono presi in giro, si sono rispettati. È stata una performance leale. Se io dicevo loro ballate, muovetevi, sarebbe uscita una carnevalata.

Si è performer? Hai detto non erano performer. Come lo identifichi il performer? Con quali caratteristiche? O tutti sono performer?
Un performer può fare una performance in qualsiasi momento della sua vita. Posso farla adesso, posso farla quando esco, stasera, domani e dopodomani. Il performer prende il momento. E quando ti viene in mente non pensi a come costruirla ma hai solo bisogno di lasciarti trasportare da questa cosa. Secondo me una caratteristica del performer è quella di essere un po’ sciamano. Bisogna essere sciamani, bisogna essere dei giocolieri. Bisogna avere un grandissimo controllo di se stessi e una grandissima voglia di perdere il controllo in se stessi.

Ma in una performance non basta che ci sia tu come performer, serve ci siano gli altri.
La regola dovrebbe essere che ci sia almeno una persona che guarda. Potresti fare la performance con solo una persona che ti guarda. La performance è qualcosa legata più ad uno stato d’animo del momento che al pubblico o al luogo. Un giorno ho fatto una performance davanti ad un mio amico: ho preso un chiodo e me lo sono messo contro la fronte e l’ho chiamato un chiodo fisso. Perché in quel momento avevo un chiodo fisso. Quando quel chiodo diventa l’unica cosa nella tua vita, nel gesto stesso che stai facendo, diventa altro. E in quel momento può scattare una performance perché io vedevo solo quel chiodo.

Qualsiasi gesto che stai facendo diventa “altro” Cosa intendi per “altro”?
Un fatto che diventa un rapporto talmente intimo con te stesso da sfiorare il sogno. La performance è anche qualcosa in cui usi il tuo corpo come oggetto d’arte. Il corpo è la condizione sine qua non perché avvenga una performance.

Non è pensabile una performance in cui il tuo corpo non entri in gioco, o no?
Forse. Però l’“io” ci vuole sempre. Il tuo “io” ci vuole sempre.

Non ti senti un po’ regista a volte?
Sono anche il regista, perché c’è anche una regia. Però tu sei dentro. Sei un regista in campo. Tornado alla domanda di prima, l’“io” è fondamentale, ma non riesco a pensare a me stesso senza l’altro. Che può essere un altro “io”. In qualche caso il mio corpo può essere l’altro. Ma anche lo spazio può diventare l’altro. È una continua costruzione ed è costruzione dell’“io”. Io mi costruisco e io mi decostruisco. È questo quello che succede dentro una performance: si cerca quella parte che ti può annullare o distruggere per poi nuovamente ricostruirti. Non a caso la performance è spesso stata esperienza di lesione del proprio corpo. Io diversamente, cerco sempre di vedere la performance come una proiezione. Anche se uso maschere e travestimenti, non riuscirei mai a ferirmi, non è il mio linguaggio. Però mi piace essere altro per un momento. Non farmi del male ma trovare un altro modo per mettermi in gioco, per scappare da me stesso e poi tornare in me stesso. Per provare dolore non penso a ferirmi, penso ad una cosa brutta. Forse la mia forma di performance è più implicita che fisica. E poi diventa esplicita perché uso i travestimenti, che siano maschere o gabbie. Ma sono travestimenti che hanno una funzione di protezione, perché voglio sempre essere protetto. L’unica volta che ho provato una sofferenza fisica è stato quando ho fatto quella performance a Mosca (Traffic Light, 2013, Manege, Cremlino, Piazza Rossa, Mosca): tenevo una gabbia di ferro in testa e battevo sopra i piatti della batteria. Quella gabbia era pesantissima e quando battevi era una tortura. Ed è durata due ore…

Tortura non voluta…
Certo, non voluta. Anche quando mi sono messo le maschere una sopra l’altra, non avevo calcolato che i volumi si allargavano, e alla trentesima l’elastico mi faceva davvero male. Ma è una cosa che succede, non cercata.

Quando finisci la performance hai un senso di nostalgia?
No ho un senso di abbandono. Cioè tu hai abbandonato la performance e la performance ti ha abbandonato. È una sensazione più forte che il semplice lasciare qualcosa. Se una persona prende il treno e l’altra saluta, sanno che si rivedranno, magari il prossimo fine settimana. L’abbandono è quando tu sai che è finita e non ci sarà più. La performance una volta finita non ci sarà più.

E l’idea di documentarle tutte a Casa Testori? Allora cos’è il “recupero di un abbandono”?
Sì, è un recupero di un abbandono. Questo titolo è bellissimo. E addirittura sai cosa è successo? Nell’immaginare a come esporle ho pensato non tanto a mostrare le performance com’erano state fatte, ma a farle rivivere, cercando di dar loro quell’altra vita che non può più essere la vita che hanno avuto prima. Non so spiegarmi meglio, ma c’è una parte della performance che viaggia da sola senza il performer.

Che continua?
Esattamente. E io vorrei far vedere in mostra le parti che fanno continuare la performance e non me. Questo vuol dire cercare una relazione, un’interazione con il pubblico e con le persone che vengono a vederla. Allo stesso tempo questa mostra funziona come una cartina nel cui spazio metto le opere tutte insieme. Opere che così custodisci in un luogo.

Quindi la performance è una creatura che continua a vivere, una volta che tu l’hai creata ma non sai cos’è?
Sì, lei c’e sempre. Prendi la performance di Marina Abramovic con il suo compagno Ulay sulla muraglia cinese. Arrivano ad un punto, si guardano e se ne vanno. Si stavano davvero lasciando. Quello è l’abbandono. Quello dice cosa è una performance o cosa resta della performance. Lasci una cosa, non sai se la rivedrai mai più, però ti resta dentro. È un momento. Loro due hanno immaginato il rito opposto al matrimonio. A me invece piace progettare il meno possibile. Devo lasciare tutto libero per il momento in cui la performance avverrà. Che sia io a farla o che sia io con altre persone. Voglio portare all’estremo la cosa. Quando ho iniziato il mio percorso artistico una persona che stimo mi ha detto che avrei dovuto estremizzare nella vita. È quello che ho cercato di fare, anche nel caso della performance. La porto all’estremo, non per fare una performance estrema, ma per lasciarla più estremamente libera.

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ANDREA BIANCONI
YOU AND MYSELF – PERFORMANCE 2006-2016
a cura di Luigi Meneghelli
21 maggio – 24 luglio 2016
Opening: sabato 21 maggio 2016 ore 18:00

CASA TESTORI
Novate Milanese (MI)

Con “You and Myself” Andrea Bianconi (Vicenza, 1974) torna a Casa Testori, occupando gran parte delle stanze, con il suo bagaglio di performance lungo dieci anni in cui l’artista impiega il corpo come linguaggio espressivo e matrice di segno. Un segno che non cerca l’esibizione spettacolare, la rivelazione provocatoria, ma che acquisisce il proprio essere (la propria identità), cessando di essere segno di qualche cosa. È come se non avesse niente da dire, ma solo una serie di eventi da suggerire, da far intuire. Nelle sue performance siamo invitati a cercare anche ciò che non c’è (che non si vede, che non si sente), a intuire l’alternativa possibile, l’altra faccia del mondo. A stanare il soggetto che si nasconde nell’altro (o nell’altrove). Il myself che si con-fonde con you. La sua è la poetica dello spostamento e della transizione continua. La mostra ripercorre l’intero iter performativo di Bianconi: accanto ad azioni poste sotto il segno del ludico (della sorpresa, dello stupore), ad azioni minimali, sommesse, incantatorie, Bianconi sviluppa altre performance che implicano autentiche “recite collettive”. L’artista non si pone stretti limiti disciplinari, regole, gerarchie, se non quelli di aprirsi all’altro, al pubblico, per destare stupore, incredulità, interrogativi. Spesso, la performance di Bianconi ha a che fare con una sorta di “divertimento artistico”: è una gag, una serie di gesti apparentemente gratuiti, di risibili azioni ludiche. Alla pari degli attori dei film muti (o dei bambini) a lui piace nascondersi e apparire in scena all’improvviso. Soprattutto le maschere fanno la loro apparizione come strumenti di difesa, di fuga, di falsità. In Trap for the Minds (del 2012), l’artista se le mette e se le toglie ossessivamente, fino ad arrivare all’ultima che non è altro che la riproduzione della sua stessa faccia. E molte sono le immagini delle “trappole” di cui Bianconi dissemina i luoghi delle sue performance: scatole, specchi, gabbie, maschere che spesso vengono indossate dai protagonisti, senza che si capisca mai fino in fondo se, questo, avvenga per rinchiudersi, isolarsi o per vivere l’esperienza della dispersione, dello sconfinamento, delle associazioni imprevedibili.

Andrea Bianconi vive e lavora tra Vicenza e Brooklyn. Alla 5 Biennale di Mosca ha realizzato una public performance tra la Piazza Rossa, il Cremlino e il Manege. Tra le sue recenti esposizioni MSK Ghent, Houston, Valencia, Madrid, New York, United Arab Emirates, Basilea, Palazzo Reale, Milano, Shanghai. Nel 2011 Charta ha pubblicato la sua prima monografia, nel 2012 Cura.Books il suo primo libro d’artista “ROMANCE” e nel 2013 il secondo dal titolo “FABLE”. Entrambi fanno parte della collezione del MoMA New York.

 

INFORMAZIONI UTILI:
Titolo mostra: Andrea Bianconi You and Myself – Performance 2006-2016
Curatore: Luigi Meneghelli
Dove: Casa Testori (largo A. Testori 13) Novate Milanese (MI)
Date: dal 22 maggio al 24 luglio 2016
Orari: mar/ven: 10-18; Sab/Dom e Festivi: 14-20; Lunedì chiuso
Ingresso libero

Libro: Andrea Bianconi You and Myself – Performance 2006-2016

Silvana Editoriale, con testi di Luigi Meneghelli, Jean Paul Gavard PerretAndrea Bianconi e un’intervista di Giuseppe Frangi
Informazione per il pubblico: www.casatestori.it | info@casatestori.it – tel. +39.02.36589697
Ufficio stampa Casa Testori: Maria Grazia Vernuccio 335-1282864

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